Il paesaggio, scriveva Cesare Pavese, è la forma visibile del tempo. È ciò che sedimenta, che resta e che resiste. È da qui che si può partire per leggere Il Luogo di Aimo e Nadia: una struttura gastronomica e culturale che rappresenta un’idea di cucina italiana che si nutre di storia, luoghi, persone e relazioni.
La storia di Aimo e Nadia
Nato nel 1962 come trattoria, il ristorante di Aimo e Nadia Moroni si è progressivamente evoluto in un punto di riferimento della cultura gastronomica nazionale. L’inizio è familiare, toscano nelle radici ma già proiettato verso una cucina colta, capace di dare dignità alle materie prime dimenticate. La svolta avviene negli anni Ottanta, quando il concetto di identità gastronomica diventa cardine di un’intera visione.


Territori come fondamenta di un progetto
Oggi, Il Luogo è guidato dagli chef Alessandro Negrini e Fabio Pisani, affiancati da Stefania Moroni, figlia dei fondatori. La loro è una cucina che parla molte lingue dell’Italia, che coniuga rigore tecnico e visione poetica dell’ingrediente. Il progetto Territori è l’architrave dell’intero impianto: dalla cucina alla formazione, dalla selezione dei fornitori alla comunicazione. Territori è una metodologia. È ascolto del luogo, interpretazione del tempo, attenzione alle persone. I fornitori diventano interlocutori attivi di un sistema: agricoltori, casari, allevatori, vignaioli, che condividono una visione di qualità, sostenibilità ed etica.

Territori è anche visione educativa. Con il progetto Aimo e Nadia per i Giovani, si investe sulla formazione delle nuove generazioni di cuochi e professionisti della sala. Un apprendistato quotidiano che non si limita alla tecnica, ma allena lo sguardo, la consapevolezza, il senso del mestiere. Il sapere si trasmette lavorando fianco a fianco, costruendo fiducia ed esercitando responsabilità.
Questo approccio si estende alla ricerca, alle collaborazioni con realtà italiane e alla creazione di una Selezione di prodotti unica tra olii, paste, conserve, formaggi stagionati e tanto altro.
Parliamo di una vera e propria infrastruttura di pensiero che tiene insieme cucina, educazione, prodotto e racconto. Un modello che, attraverso la lente dell’Italia, parla al futuro.
Una cucina che si basa sul prodotto e il suo senso
In carta, troviamo una sezione dedicata ai piatti del cuore come gli Spaghettoni di grano duro Benedetto Cavalieri al cipollotto fresco e peperoncino con filo d’olio e basilico ligure. Oppure il Controfiletto di vitella Fassona di montagna con panure di camomilla e composta di cipolle di Tropea. O ancora la celebra Zuppa Etrusca, tanto amata anche da Umberto Veronesi che la commentava così ogni volta che la degustava: «Caro Aimo, con questa zuppa lei vende salute».
C’è anche un concetto molto significativo, espresso diverso tempo fa da Marco Guarnaschelli Gotti, giornalista e gastronomo, che racconta il grande significato di questi piatti. Si chiama “gesto minimo”. Così come in teatro si cerca la battuta essenziale per riconoscere un attore, in cucina, il giornalista si domandava quale fosse il festo minimo per riconoscere uno chef. Lui stesso trovò risposta e una delle espressioni più alte di questo concetto nel pane e pomodoro di Aimo. Non è questione di semplicità, ma di sensibilità: scegliere un ingrediente, comprenderne la storia e il contesto, restituirlo nella sua verità più profonda. Quel piatto, diventato simbolico, non colpiva per composizione o tecnica, ma per la vibrazione che lasciava in chi lo assaggiava. Un’emozione che superava la somma degli elementi, appunto. Oggi, questa stessa idea di essenzialità attraversa la cucina di Negrini e Pisani: togliere il superfluo, far emergere il senso, lasciare che il gusto si sedimenti nella memoria dell’ospite, senza artifici inutili.
Ecco che in un’epoca in cui la parola “territorio” è spesso usata come luogo comune, Aimo e Nadia ne propone una lettura esatta, non semplificata. Non una cucina regionale, ma una cucina relazionale. Il Luogo non celebra l’Italia: la interroga. E così facendo, la rappresenta. Come scriveva ancora Pavese: «Il paesaggio è la nostra storia in forma visibile. È ciò che resta del tempo, e ciò che genera il tempo che verrà».