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Napoli, Domenico Candela è la stella che brilla nel Grand Hotel Parker’s

domenico candela

Domenico Candela, chef del George, il ristorante stellato del Grand Hotel Parker’s, dopo una lunga gavetta in Francia, è tornato a Napoli per una nuova sfida: far capire ai napoletani che non esiste solo la cucina napoletana.

Domenico Candela arriva al George Restaurant due anni e mezzo fa. Quando il Grand Hotel Parker’s lo cerca per far volare alto il ristorante gourmet dell’hotel. Sembrerebbe un grande classico, se non fosse che tutto ciò avviene a Napoli, città poco avvezza all’alta ristorazione nei grandi alberghi. Fa eccezione giusto il Romeo Hotel con il suo ristorante stellato Il Comandante (ne avevamo parlato qui).

E così Domenico Candela, napoletano di Marano, classe ‘86, parte dalla sua Francia pluristellata del calibro di Yannick Allenò, Anne Sophie Pic e Alain Solivérès, con una valigia piena di sogni, gavetta e competenza da vendere. In più, ordine e disciplina da sfiorare il militaresco. Se un cuoco ha studiato in Francia, si vede dalle basi.

Domenico Candela resta comunque napoletano, a quel rigore francese affianca la voglia di divertirsi “a casa sua”. Lui così esigente, incapace di accontentarsi, si imbarca nell’impresa e lancia a sé stesso una sfida. Far capire ai napoletani che non esiste solo la cucina napoletana. In corso d’opera, sfodera pochi sorrisi, ma molti fatti. Per esempio, la conquista della stella Michelin dopo appena un anno di lavoro.

La sua è una cucina sontuosa, pulita, riconoscibilissima. Uno stile che cavalca con destrezza tradizioni diverse. Lui riesce a incrociarle, per poi ridistribuirle con  personalità. Sorride poco, ma sa far divertire. Anzi, risulta tremendamente coinvolgente. Lo abbiamo intervistato e ci ha raccontato la passione, il sacrificio, le idee, la ricerca continua di ingredienti e abbinamenti sempre nuovi. In pratica, l’identikit di un grande professionista della cucina.

Il George Restaurant al momento è aperto per i soli clienti dell’hotel. Chi desidera trascorrere la serata lì da loro, nel pieno rispetto delle normative anti Covid, può usufruire della formula staycation “cena e dormi da noi”.

Chef, giusto per farla arrabbiare un po’, si dice che lei faccia “cucina francese”?

Lo so, viene naturale pensarlo perché arrivo da anni di esperienze lavorative in Francia. Sicuramente le mie basi sono quelle, classiche e sacrosante. Ma la mia è un cucina contemporanea, anche se sto cucinando un grande classico, la modernità sta nella ricerca costante delle materie prime migliori e del loro abbinamento con ingredienti che non ti aspetti. E comunque, i napoletani spesso dimenticano che la cucina napoletana già di per sé è mezza francese e mezza spagnola. Quindi nessuna eresia a mescolare un po’ le carte.

Visto che non fa cucina francese, come ce lo spiega il suo richiestissimo Foie Gras?

È un foie gras reinterpretato da un cuoco campano. Lo abbino a prodotti del territorio e non solo. Parto da una materia prima eccellente e la stuzzico con ingredienti nostrani in abbinamento. E poi i napoletani il fegato l’hanno sempre mangiato, quindi, ancora una volta, si tratta solo di superare un cliché.

E qui al George è stato difficile far superare questi cliché?

Prima di tutto, è stato fondamentale che io trovassi la mia modalità di cucina. Quando sono arrivato, mi sentivo addosso tutte le aspettative di chi sa che hai lavorato in cucine pluristellate. E mi sono fatto prendere, rischiando di strafare. Poi ad un certo punto resetti e inizi a selezionare, a dar voce alla tua personalità, senza condizionamenti esterni. La cucina deve esprimere creatività, ma soprattutto personalità. E quando questa cosa ti è chiara, riesci a far passare qualsiasi messaggio.

Si dice che la formazione francese ti resti addosso come un marchio indelebile.

Lì ho imparato tantissimo, ma una volta rientrato in Italia, nel momento in cui dovevo essere io a guidare una brigata, sapevo perfettamente cosa avrei conservato e cosa no. Non c’è bisogno di essere spietati, il lavoro di squadra è una questione di lealtà e di motivazione.

Ci spieghi meglio.

Sono molto esigente con i miei ragazzi. Moltissimo. Ma sono il primo ad esserci, a rassicurarli, ad ascoltarli e a dargli il massimo. In cambio, voglio il massimo da loro. Per questo non smetto mai di studiare, di trasferirgli nuove informazioni, di stimolarli, di fare prove, di chiedere il loro parere. A tutti, nessuno escluso.

A proposito di prove, come raggiunge il famoso equilibrio in un piatto?

Con l’umiltà di ascoltare cosa ne pensano gli altri. E qui mi riferisco alla brigata, ma anche e soprattutto ai clienti. Parlando di gusto, io ho una netta preferenza per l’acidità e l’amaro, ma so che non sono sapori facili, anzi, molto divisivi. Proprio per questo devo ascoltare gli altri e trovare quell’equilibrio che possa mettere tutti d’accordo. La cucina non è un monologo, casomai un’esibizione corale dove tutti sono fondamentali. Al centro del mio lavoro c’è il cliente, è lui che mi paga lo stipendio e quindi è lui che deve essere soddisfatto.

Come si organizza con i menu degustazione?

Mi piace variare proponendo sempre la stagionalità. Per esempio adesso è il momento del tartufo di Norcia e mi piace omaggiarlo con dei piatti. In primavera arriverà sicuramente un menu più focalizzato su vegetali e pesce. Mentre l’autunno per me è perfetto per far divertire i clienti appassionati di selvaggina. Sono il primo che ha bisogno di spaziare, non mi fermo mai.

Cosa significa essere chef?

Significa scegliere non un lavoro, ma abbracciare uno stile di vita. Gli chef non sono persone normali, ci vuole della pazzia per fare una vita così. Interminabili ore di lavoro, di rigore, di ascolto, di decisioni da prendere. Ma ho la certezza di fare quello che mi rende felice, non ho mai lavorato con l’ossessione per la stella Michelin, la mia ossessione sarà sempre e solo il cliente soddisfatto.

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