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Vino

Orange wine, il ritorno in auge dei bianchi old style

orange wine

I vini arancioni, figli di antiche tradizioni contadine, sono tornati alla ribalta e da qualche anno spopolano ovunque, specie in mercati più attenti alla naturalità e alla genuinità dei vini come Inghilterra, Usa, Giappone e Scandinavia. Vi raccontiamo cosa sono gli orange wine.

Avete mai osservato i dipinti rinascimentali che raffigurano tavole imbandite, o scene di banchetti? Concentratevi sui vini bianchi nei bicchieri. Vi siete mai chiesti perché non appaiano pallidi e traslucidi, come i bianchi di oggi, e perché sembrino piuttosto virare verso sfumature  più calde del giallo fin quasi a raggiungere toni e sfumature dell’arancione? Non si tratta di un fenomeno dovuto all’effetto della luce o alla patina del tempo che ha alterato i colori del dipinto. La ragione è semplicemente che quello era allora il colore dei vini ottenuti da bacche bianche.

Eh già, in quel periodo si bevevano vini arancioni, con buona pace di chi è convinto che quella degli orange wine sia una moda nuova. Di nuovo c’è solo la fine di pregiudizi insensati nei loro confronti e il loro ritorno in auge, visto che da qualche anno spopolano ovunque, specie in mercati più attenti alla naturalità e alla genuinità dei vini come Inghilterra (d’altra parte da almeno due secoli a questa parte Londra detta sempre la moda del vino), Usa e soprattutto Giappone e Paesi scandinavi (Svezia e Danimarca in primis).

Il nome orange wine (definizione coniata dal commerciante britannico David Harvey nel 2004) lo si deve dunque al colore di questi vini dalle sfumature ambrate e giallo/arancioni che si ottengono utilizzando per le uve a bacca bianca la stessa tecnica di vinificazione usata per produrre vini rossi, vale a dire favorendo un prolungato contatto tra il pigiato e le bucce. Alcuni possono essere di colori non marcati – giallo paglierino o dorato – altri, invece, sono di tonalità più decise, ambrate, aranciate oppure, come nel caso del Pinot Grigio o del Gewürztraminer, ramate.

Nuance non convenzionali che potrebbero provocare qualche alzata di sopracciglio in chi non ha familiarità con questo stile di vinificazione. Non esiste a priori un limite di tempo minimo o massimo, o anche solo consigliabile, per lasciare mosto e bucce a contatto, dipende da diversi fattori, in primis dal tipo di uva e dalle caratteristiche che essa, o meglio la sua buccia (ma anche raspi e vinaccioli) possiede e dall’idea di vino che il produttore ha in mente.

C’è chi si limita a consentire un contatto tra la massa liquida e le bucce di alcune ore, chi qualche giorno, molti produttori si spingono a macerazioni di alcuni mesi e taluni perfino di anni. La prolungata presenza delle bucce, e la temperatura di fermentazione, determinano la colorazione e ovviamente influiscono anche sul sapore e sul profumo dei vini arancioni, poiché il contatto prolungato del mosto con la buccia e i vinaccioli consente di estrarre le sostanze (flavonoidi, tannini e terpeni) che garantiscono colore, aromi, struttura e capacità di invecchiamento rendendo il vino molto più complesso sia al naso che in bocca. La realizzazione di vini bianchi di questa fatta è una tradizione antica, contadina, quasi sparita con l’avvento di nuovi macchinari di cantina che permettono di eliminare le bucce immediatamente e con l’utilizzo di tecniche omologanti che hanno reso seriale un prodotto che per sua natura non può esserlo.

Fortunatamente questo stile antico è sopravvissuto, in luoghi come la Georgia, culla del vino, in Slovenia, ma anche nelle campagne italiane dove il vino contadino ha sempre sostato sulle proprie bucce più o meno a lungo. Friuli, Emilia e Veneto (ma non solo) sono luoghi dove ancor oggi le uve bianche vinificate in casa sono tradizionalmente macerate.

Probabilmente gli orange sono fra i vini più insoliti che è possibile assaggiare. Benché talvolta diano luogo a opinioni contrastanti, i migliori esempi sono espressivi e complessi, caratterizzati da originali e inaspettate combinazioni di sapori e strutture. Durante il contatto con le bucce infatti, i tannini e gli antiossidanti che vengono estratti conferiscono a questi vini la struttura (e spesso l’intensità tannica) di un rosso. Assaggiandoli a occhi chiusi o in un bicchiere scuro potreste fare molta fatica a capire che non si tratta di vini rossi.

Si tratta di vini “alimento” che ben si accompagnano alle cucine dei propri luoghi di origine, ma anche a cucine particolari come quella asiatica, giapponese in primis. Come per tutti i vini è importante la temperatura di servizio, mai servirli freddi ma a temperature intorno ai 15°, magari aprendo la bottiglia qualche tempo prima di metterla in tavola. Gli orange wine sono vini adatti a medi lunghi invecchiamenti, soprattutto quelli nati da lunghe macerazioni.

Una delle critiche che talvolta vengono mosse agli orange wine è legata ad una presunta omologazione del gusto. Sebbene è vero che le lunghe macerazioni abbiano un grande impatto sul profilo aromatico di questi vini, spesso riducendo gli aromi varietali più flebili e sottili delle uve di partenza, di contro va detto che gli orange riescono altrettanto spesso a esprimere peculiarità di un terroir che un bianco normale difficilmente riesce a veicolare con la stessa intensità, o particolarità dell’uva di origine che altrimenti rimarrebbero silenti.

Va da sé che tutta questa somiglianza (o appiattimento gustativo, come lo chiamano alcuni) millantata tra gli orange sia solo legata ad un approccio superficiale e infarcito di preconcetti verso questi vini, tra i quali è possibile trovare campioni di territorialità, dotati di grande profondità espressiva e di versatilità gastronomica. Per citare alcuni esempi partiamo dal Friuli, dove le interpretazioni di Ribolla Gialla di vignaioli pionieri come Joško Gravner e Stanko Radikon a Oslavia, terragne e carnose, sono capaci di raccontare il Collio goriziano come pochi altri vini.

Sempre a Oslavia e nei dintorni (Gorizia, San Floriano del Collio) altri grandi interpreti del medesimo territorio, dello stesso vitigno e non solo sono Damijan Podversic, Dario Princic e Franco Terpin, che realizzano straordinari e profondi orange wine utilizzando anche uve come Pinot Grigio, Chardonnay, Sauvignon Blanc e Friulano. Spostandoci sul Carso il Solo di Vodopivec a base di Vitovska, con la sua sapidità e mineralità ci porta nel bicchiere la ponca carsica e l’Adriatico.

Ovviamente esistono fulgidi esempi di orange di grande qualità in altre regioni italiane, come il piacentino Ageno di La Stoppa (Malvasia di Candia, Ortrugo e Trebbiano), i Timorasso di Daniele Ricci a Costa Vescovato, la Nosiola Fontanasanta di Elisabetta Foradori nella trentina Piana Rotaliana, le superbe interpretazioni di Pigato e Vermentino di Rocche del Gatto nella riviera ligure di Ponente, i solari e potenti bianchi marini isolani del sardo Dettori, di Giusto Occhipinti (Cos) a Vittoria (RG) e Giotto Bini a Pantelleria.

Si potrebbe proseguire all’infinito ma bastano questi esempi per dire “assaggiateli”, non fatevi condizionare dal primo tentativo che potrebbe non essere tra i più felici, a causa di  una novità gustativa che il palato può faticare nell’apprezzare all’istante. È un po’ come con le ostriche, i ricci di mare, i formaggi blu o il tartufo: all’inizio si è diffidenti per via di profumi, sapori o consistenze che ci lasciano spiazzati, poi una volta superato lo scetticismo l’apprezzamento si trasforma presto in dipendenza.

Nelle prossime settimane vi aiuteremo a conoscere più nel dettaglio alcuni orange wine italiani, tra miti e new entry, che secondo noi vale la pena assaggiare.

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