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Pasquale D’Ambrosio approda al 7Pines Resort Sardinia

pasquale d'ambrosio

Con la stagione estiva ormai alle porte, è tempo di novità in Costa Smeralda. Al 7Pines Resort Sardinia, ai fornelli del ristorante Capogiro, è arrivato lo chef Pasquale D’Ambrosio.

C’è aria di una futura nuova stella in Sardegna. Più precisamente in Costa Smeralda. Pasquale D’Ambrosio è infatti approdato nella cucina del ristorante Capogiro, all’interno del 7Pines Resort Sardinia, con una cucina che punta alla sostenibilità, alla scelta di piccoli produttori locali e alla promozione delle eccellenze del territorio.

Il suo è un occhio attento al zero spreco, che ottiene recuperando gli scarti per realizzare, per esempio, oli aromatizzati o altri piatti.

In Sardegna porto una cucina sostenibile – spiega lo Chef Pasquale D’Ambrosio sensibile agli sprechi e rispettosa di un territorio che offre un’incredibile varietà di ingredienti di qualità. Nei nostri piatti li presenteremo con tocco contemporaneo e grande attenzione all’estetica.” Al Capogiro, il ristorante fine dining all’interno del nuovo resort 7Pines Sardinia, aperto anche agli ospiti esterni con vista mozzafiato sul mare, lo chef propone una cucina mediterranea con forti richiami alla tradizione gastronomica dell’isola.

Come nasce la tua passione per la cucina?

“Da piccolo andavo spesso alle sagre di paese e ammiravo un cuoco che veniva applaudito costantemente. Il suo volto lo ho ancora davanti agli occhi. Fu lì che pensai che da grande avrei fatto questo. Ma non ho mai pensato di cucinare per sfamare la fame, ho sempre creduto che la cucina fosse una forma di espressione artistica. E infatti dopo 30 anni di lavoro non sono più alla ricerca del palcoscenico, degli applausi, ma della gratificazione che mi regalano le persone alla mia tavola. La cosa divertente di questa storia è che dopo anni ho scoperto che la persona che chiamavano chef faceva invece il facchino all’interno di un albergo di lusso a Napoli. Quindi il mio mito era in realtà Nicola il falso chef”.

Cosa ne pensi della ristorazione in hotel? Luci e ombre. E come la interpreti?

“Sono nato e ho sempre preferito lavorare all’interno di un luogo dove arrivano turisti internazionali. L’hotel è la mia zona di comfort. Un luogo dove rimanere fermi eppure riuscire a viaggiare. Sempre, ogni giorno. Il confronto mi arricchisce e queste sono sicuramente le cose positive della ristorazione all’interno di un’attività ricettiva. Le ombre: la ristorazione in hotel è sempre stata vista come una ristorazione di serie C, mentre penso sia di serie A dato che gli standard e le richieste degli ospiti, anche all’ultimo momento, sono altissime. Però mi rendo conto che non si tratta di un luogo accessibile a tutti, proprio a livello di mentalità, al contrario di tante città europee. All’estero viene visto come luogo dove si mangia bene e con una grande professionalità”.

Quali sono i piatti che ti rappresentano di più?

“Il pacchero di Diego e Antonello, un pacchero fresco al basilico con 13 pomodori. Il pomodoro mi rappresenta come napoletano. Durante il mese di agosto si raccolgono i pomodori tutti insieme, in famiglia, e viene fatta la salsa per l’inverno, un bel ricordo dell’infanzia, ma anche un modo per stare insieme. Nel tempo ho incontrato diversi tipi di pomodoro e li ho portati tutti in questo piatto. Poi la fettuccia di grano duro alla Nerano che rappresenta il mio essere campano, oppure il polpo alla Luciana che ricorda la storia che mi raccontò per la prima volta mio nonno: il nome deriva dagli abitanti del quartiere di napoli, detto di Santa Lucia, dove c’erano i pescatori. E poi la montanarina che propongo sempre come entrée, il mio biglietto da visita”.

Punti alla stella? E cosa consigli agli chef che la aspettano?

“Come chef non punto alla stella ma la ricerco per gratificare i giovani che lavorano tante ore con me in cucina. Mi sento il traghettatore di un sogno, il loro, il mio palcoscenico me lo sono preso negli anni e non amo la notorietà. Agli chef raccomando di non andare la mattina in cucina con questo pensiero, la stella arriva pensando in primis agli ospiti”.

Come definiresti la tua cucina per chi non è stato da te? 

“Scugnizza. Ovvero imprevedibile, ma anche antica e contemporanea. Mi spiego, la mia cucina è come i ragazzi di strada, ti regalano un sorriso, con quella consapevolezza di chi si fatto strada da solo, come ho fatto io. Un sorriso che sorprende, il racconto di una vita che prende pieghe diverse. Antica e contemporanea perché il mio menu deriva tutto dal passato, dalla tradizione napoletana ma con una mentalità giovane”.

Parlaci di te: tre pregi e tre difetti?

“Difetti: sono eternamente alla ricerca della perfezione senza ovviamente mai poterla raggiungere. Quindi deriva il mio secondo difetto, sono sempre insoddisfatto. Infine dedico poco tempo al pairing, allo studio del vino, per me conta principalmente il piatto e il suo sapore, mentre dovrei essere attento anche a questi aspetti.

Pregi: sono molto diretto e sincero, talvolta forse non dovrei essere così cristallino. Sono una persona molto positiva, cerco sempre di trovare una soluzione di fronte a qualsiasi problema. E poi provo ancora curiosità, provo ancora la gioia della meraviglia, sono entusiasta del mio lavoro”.

Quali sono i piani per il futuro?

“Sicuramente portare a compimento il progetto del Capogiro, il ristorante gourmet, e tutta la ristorazione del 7Pines che abbiamo appena iniziato, la scorsa stagione è stata proprio una start up di 50 giorni. Quindi la partita è ancora tutta da giocare. Per me è importante definire la nostra identità, vogliamo farci conoscere all’esterno ed essere percepiti come un ristorante di territorio, rappresentativo della cucina locale e mediterranea. Infine vorrei creare una scuola di cucina gratuita, attiva sono nei periodi nei quali siamo chiusi. Si tratterà di circa 10-20 ragazzi da formare per questo lavoro, e ovviamente per i più volenterosi, dare loro un primo contratto per la prossima stagione”.

Quale sarà il futuro della cucina? E che importanza pensi avranno gli stellati?

“Dovremo tutti tornare alla normalità. Si è arrivati all’estremismo nella cucina, tralasciando la riconoscibilità dei singoli ingredienti. E l’italianità, talvolta la diamo così per scontata, da lasciarla da parte. Il ruolo degli stellati sarà sempre più importante nel futuro con un impegno importante verso l’estero e verso la stessa Italia. Sia perché non siamo il popolo degli spaghetti al pomodoro e mandolino (per il pubblico estero) sia per sottolineare il rapporto con il cibo e realizzare una riscoperta. Vorrei che non si perdesse la cultura e un po’ la venerazione che noi italiani abbiamo per il buon mangiare: nel futuro spero che i nostri giovani non si nutrano nei fast food. Un esempio per fare cultura del cibo? Utilizzare la pala di fico, una pianta che non viene utilizzata che dall’antichità o il manzo di bue rosso al posto della più famosa chianina. O ancora l’importanza dell’olio, io promuovo quello sardo oppure il riutilizzo degli scarti per fare l’olio aromatizzato”.

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