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La cucina romana non esiste (ma tutti la magnano!)

la cucina romana non esiste

Presentato a Milano il nuovo libro dell’Oste Romano David Ranucci. Un vero e proprio viaggio attraverso le origini delle ricette tradizionali della cucina romana

Questo è il titolo del secondo libro firmato David Ranucci, presentato a Milano in occasione dell’inaugurazione di Pizzottella (ve ne abbiamo parlato qui). Un volume dal titolo provocatorio, curato da Ristoragency e scritto a sei mani con Claudiana de Cesare e Nadia Deisori, è un viaggio attraverso le origini, gli aneddoti e le ricette di una cucina tra le più famose al mondo che, nonostante la notorietà, è ancora capace di riservare incredibili sorprese.

Ranucci, l’Oste Romano a capo di cinque importanti ristoranti tra Milano e Miami, nelle pagine del libro dimostra come la cucina contemporanea romana sia la sintesi perfetta  delle culture che, sin dai tempi più antichi, hanno segnato la storia della Capitale. Il risultato è dunque una cucina dall’identità poliedrica e stratificata, che riflette l’eredità che le moltitudini di pellegrini, burini (come i romani orgogliosi della loro identità capitolina identificavano tutti color che arrivavano da fuori l’Urbe), ma anche Etruschi, Greci, patrizi e papi hanno lasciato nelle pentole della capitale.

“Il libro nasce perché vuole essere un invito ad incuriosirsi. Non è un libro che ha la presunzione di sapere anche perché siamo di fronte all’assenza totale di fonti scritte. La sintesi più vera del libro è racchiusa nelle parole che Nadia ha pronunciato ieri sera durante la presentazione: è l’abilità della cucina povera di vincere su quella dei ricchi ma soprattutto è la capacità di Roma di assorbire e valorizzare le altre culture. Chi arriva a Roma, diventa romano a tutti gli effetti” ci racconta David.

La cucina romana non esiste (ma tutti la magnano!) è un racconto, un excursus nella storia della gastronomia romana, con interessanti sezioni di approfondimento dedicate a prodotti e ricette, nonché a voci e luoghi di Roma. Scorrendo le pagine, il lettore viene trasportato tra sontuosi banchetti patrizi fino a scoprire i segreti delle cucine dei ceti più popolari caratterizzate dal sapiente riuso e recupero degli scarti, da sempre punto di forza della tradizione culinaria romana.

È infatti proprio viaggiando tra le abitudini alimentari del popolo che si può risalire alle radici della cucina romana. Nel suo libro, Ranucci spiega come l’olio di oliva, portato a Roma dagli Etruschi e dalla Magna Grecia e all’epoca largamente prodotto in Andalusia, era presente sulle tavole più umili insieme ai legumi e alle erbe in abbondanza (tanto che Plauto definì i Romani “mangiatori di erbe”). E ancora oggi l’olio, insieme alle erbe come fave, carciofi, cicoria e cavolfiori, non possono mai mancare sulle tavole dei romani.

Quella dei tre autori è stata una ricerca a tutto tondo che non si è fermata neanche di fronte ai capisaldi della cucina romana, rivelando che molti piatti simbolo della romanità e intoccabili per i più non sono esenti da influenze esterne. E così, tra le pagine del libro, scopriamo che la gricia potrebbe esser arrivata a Roma tramite i pastori abruzzesi durante le loro migrazioni stagionali oppure che il supplì, simbolo dello street food della Capitale, pare  debba il suo nome alla parola francese surprise.

E la grattachecca? Sembra proprio che a portare fino a Roma la tecnica della neve pressata e del ghiaccio furono i Greci.

La cucina romana non esiste (ma tutti la magnano!) non vuole però scandalizzare o sminuire il ricchissimo patrimonio gastronomico romano. L’obiettivo, al contrario, è quello di mettere in luce la poliedricità della cucina capitolina, valorizzando la sua capacità di attrarre culture diverse, unendole e sintetizzandole in quella che potremmo definire una cucina fusion ante litteram.

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