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Trattoria Contemporanea: “siamo tutti parte dello stesso piatto”

Trattoria Contemporanea

Hanno ribaltato il mito dello chef solitario e trasformato la cucina in un organismo orizzontale. A Trattoria Contemporanea il fine dining diventa relazione, e il piatto un linguaggio per interrogare cosa significhi davvero stare insieme.

A pochi chilometri da Como, dentro un ex opificio industriale, c’è un ristorante che ha scelto di non funzionare come un ristorante. Trattoria Contemporanea — una stella Michelin, una squadra di under 30 e un’idea radicale di cucina — ha costruito un ecosistema orizzontale dove non ci sono linee nette, né firme sopra i piatti. Solo traiettorie che si intrecciano, mani che si alternano, voci che si ascoltano.

Non è un ristorante nel senso classico: è un luogo dove il gesto tecnico cede il passo alla relazione, dove la gerarchia si scioglie in un pensiero comune, dove l’ospite non è spettatore ma parte viva della scena.

Siamo andati a trovarli per capire come si costruisce — e si protegge — un’utopia collettiva in uno dei mondi più competitivi che esistano. E li abbiamo incontrati uno per uno, ponendo a ciascuno una sola domanda: una domanda che andasse al cuore del loro ruolo e, insieme, del progetto collettivo che abitano.

Davide Marzullo – Chef

“In una cucina come la vostra, dove la leadership è orizzontale e condivisa, qual è il confine sottile tra guidare e lasciare spazio? Come si coltiva l’identità individuale di ciascuno – anche nei piatti – senza perdere coerenza collettiva? E ancora: sei in sala, a volte più che in cucina. È quasi una mossa anticonvenzionale in un settore che idolatra lo chef come demiurgo chiuso in cucina. Ma fino a che punto la tua presenza è ponte e non interferenza? Qual è, per te, la distanza giusta tra chi cucina e chi mangia, affinché il piatto resti relazione e non controllo?”

“Nessuno di noi ambisce a guidare, è proprio qui che sta la leadership condivisa. Tutti, al contrario, hanno il piacere di lasciare spazio. Questo accade perché ciascuno di noi ha davvero trovato il suo posto all’interno di Trattoria contemporanea, e ci crede. Condividiamo un progetto, un pensiero, ed è questo che ci guida. Io credo che rischieremmo di perdere coerenza se qualcuno di noi non fosse più allineato con la visione condivisa. Abbiamo personalità diverse, certo, ma ognuno di noi coltiva la sua individualità per portare qualcosa a beneficio del gruppo.

Chi l’ha detto che uno Chef deve stare solo in cucina?! 

Vivere la sala mi permette di conoscerla, ed è giusto a mio avviso conoscere ogni segmento di un’attività; ti permette di comprendere a fondo l’intero progetto, di avere una visione a 360°, di capire il lavoro di ogni persona del team. Muoversi al di fuori del proprio spazio, o di quello che il ruolo ci vede assegnato, è uno stimolo a imparare, e quindi a crescere: al contrario ragionare secondo una divisione dei ruoli è un discorso che può rivelarsi limitante. Anche lucidare le posate per me è importante. Molti colleghi, vedendomi sparecchiare, mi chiedono se lo faccio per carenza di personale. Ma io lo faccio perché mi piace, perché mi serve per capire quale è il tragitto dal tavolo al lavaggio e se il tavolo è posizionato nel punto corretto. Niente più del fare ti aiuta a capire. E poi la sala a me piace tantissimo: mi permette di parlare con i nostri ospiti, annullando il distacco tra me e loro, per ascoltare i nostri punti deboli e quelli di forza. 

La distanza giusta tra chi cucina e chi mangia la decide sicuramente chi sta mangiando, l’ospite. Ciascuno può godere dell’esperienza in Trattoria contemporanea nella modalità che più sente propria: se vuole scherzare con noi, giocare a canestro nel bagno, farsi una foto con noi…siamo aperti a questo; se, invece, preferisce accoglierci solo al tavolo nel momento del servizio, siamo altrettanto felici”. 

trattoria contemporanea

Christian Malatacca e Andrea Noto – Chef 

“I vostri piatti affondano nella memoria italiana, ma sono spesso taglienti, mordono, si prendono libertà e provocano, come il bottone alla veneziana con vinacce e alloro. Dove finisce, per voi, il dovere verso la tradizione e dove inizia il diritto alla disobbedienza? Oggi che la ‘cucina italiana’ è diventata brand, etichetta, storytelling da mercato, quanto è ancora possibile riscriverla senza fare solo maquillage? E, soprattutto, quale responsabilità morale ha uno chef nel toccare un patrimonio collettivo che rischia di essere imbalsamato o, peggio, svuotato da una finta innovazione che non mette mai davvero in crisi nulla?”

C: “I nostri piatti cercano sempre una rotondità, ma non tralasciano gli spigoli; gli “spigoli”, come li chiamo io, sono taglienti per definizione, ma sono necessari a creare dinamismo nel piatto. Servono per stimolare, per stupire… altrimenti avremmo un gusto piatto. 

Parlando di cucina italiana e di tradizione, io credo che un cuoco abbia il potere di non fare dimenticare le cose. L’utilizzo di materie prime povere, ad esempio, la valorizzazione degli scarti, fa parte della tradizione. 

Chi fa il nostro mestiere, secondo me, ha la possibilità di mantenere la connessione con la tradizione e con le sue idee personali, di creare un equilibrio, senza farsi trasportare completamente da mode e tendenze, ma prendendosi delle licenze creative, quello sì. Torniamo al concetto di rotondità, di cerchio che si deve chiudere. 

Per citare un piatto, con il fegato alla veneziana stiamo portando in tavola un piatto raccontando la sua storia, senza guardare in maniera rigida alla sua esecuzione.” 

A: “prendiamo spunto dalla tradizione e cerchiamo di renderla al meglio nel rispetto di quello che siamo noi: giovani, freschi e “piacioni”. La nostra generazione, oggi, è più probabile che sappia cos’è il sushi piuttosto che il fegato alla veneziana, e il lavoro che noi facciamo e anche per rendere appetibile un piatto tradizionale agli occhi di chi non lo conosce ancora e forse non lo avrebbe scelto. 

Questo non è un dovere o un diritto, è una libertà che ci prendiamo, senza sovrastrutture, per fare ciò in cui crediamo.”

trattoria contemporanea
Cavolo cinese, salsa kimchi, burro d’arachidi e cipollotto
Elena Orizio – Pastry Chef
La pasticceria, nella sua essenza, è un equilibrio tra controllo e delicatezza. Ma dentro Trattoria Contemporanea, si chiede anche al dolce di parlare il linguaggio della relazione, della sorpresa, dell’istinto. Come si plasma un dessert che sia, insieme, chiusura formale e apertura emotiva? E in che modo il tuo lavoro si inserisce nel respiro collettivo del menu, senza perdere precisione e voce propria?

“I dolci di Trattoria contemporanea vogliono rievocare ricordi d’infanzia, così entrano in relazione con l’ospite. Sin dal carrello del pane, posto al centro del percorso, che per noi fa parte della pasticceria, vogliamo ricordare il profumo del pane caldo e appena sfornato. Nel pre-dessert, invece, con il ciuccio, con un po’ di sorpresa chiediamo all’ospite di tornare bambino per un momento. 

Ogni dessert ha un significato, come il pop corn o la pavlova, rivisitazione di un grande classico in chiave moderna. Non puntiamo a ricercare il gusto strano o la fermentazione, a stravolgere la struttura di un dolce, vogliamo servire i dolci di un tempo, quelli che hanno fatto parte della nostra vita, con un po’ più di freschezza e meno zuccheri. 

Il menu lo scriviamo tutti insieme, senza distinzione tra dolce e salato, con l’idea che il dessert appartenga e ben si sposi con il percorso all’interno del quale viene proposto. Istinto, Passione e Coraggio, le nostre proposte in degustazione, presentano infatti dolci diversi, che si differenziano tra loro per dolcezza, leggerezza e complessità, e sono pensati per completare l’esperienza.”

Mattia Piotto – Maître di sala

L’ospitalità empatica è un ideale difficile da praticare senza scivolare nel paternalismo o nella teatralità. Come si riconosce il momento in cui smetti di essere autentico e inizi a recitare un copione? E come fate a evitare che l’informalità diventi superficialità o, peggio, mancanza di cura?

“L’autenticità è un equilibrio delicato, ma per noi parte tutto da un principio semplice: l’attenzione al dettaglio è la prima regola, sempre. 

È proprio quella cura, anche nelle piccole cose, che impedisce all’informalità di diventare superficialità. 

Siamo noi stessi con ogni persona che entra: niente maschere e niente copioni. Trattiamo gli ospiti come persone, come vorremmo essere trattati a nostra volta, senza formalismi forzati, accorciando il più possibile la distanza formale – che a volte rende tutto un po’ rigido – tra noi e loro.

Seppia marinata, salsa beurre blanc, olio ‘nduja

Andrea Rocco – Sommelier

Hai scelto vini rari, produttori piccoli e fermentazioni particolari. Ma quanto è sincero questo scarto rispetto al mercato? È autentica ribellione o una forma di esclusività mascherata? E come eviti che la ‘ricerca’ diventi un’operazione elitaria, poco comprensibile o addirittura alienante per l’ospite?

“Ogni abbinamento che nasce in Trattoria contemporanea è frutto delle emozioni delle persone che condividono questo percorso. La scelta di abbinare un cocktail a un piatto, ad esempio, può nascere dopo averlo bevuto insieme ad amici; il ricordo di un bel momento ci aiuta raccontare meglio ai nostri ospiti ciò che stiamo proponendo loro. Le emozioni che abbiamo vissuto ci guidano, ed è questo che vogliamo ricreare in Trattoria. Questo “gioco” vale anche per la scelta dei vini in abbinamento: il venerdì sera, dopo il servizio, assaggiamo bottiglie di vino che qualcuno porta dopo una visita in Cantina o dopo averlo provato altrove, e spesso beviamo alla cieca, così proviamo nuovi vini e quelli che ci colpiscono entrano nella nostra carta. È un lavoro di squadra. 

L’obiettivo rimane conoscere le storie, i sogni e le difficoltà passate dalle persone che lavorano il vino, e cercare di trasmettere a nostra volta i valori che condividiamo. 

Crediamo che questo lavoro dietro le quinte arrivi anche al nostro ospite e lo aiuti a lasciarsi trasportare dalle nostre parole, parole semplici e poco tecniche, che servono a comprendere meglio il nostro messaggio.”

Luca Di Pierro – Co-founder

Avete ricevuto una stella Michelin, ma non sembra essere il vostro punto di arrivo. In un momento storico in cui tutto si muove velocemente e ogni progetto rischia di essere fagocitato dalle aspettative esterne, come fate a proteggere l’integrità di questo progetto? E cosa significa per voi restare ‘puri’, come dite? A fronte di queste premesse, come si inserisce la nuova apertura di Tratto a Firenze?”

“Per noi ogni punto di arrivo è un punto di partenza. 

Le prime aspettative con cui ci troviamo a confrontarci sono le nostre, quelle verso noi stessi, ed è essenziale che siano sempre connesse ai nostri valori. Così ci manteniamo autentici. Alle aspettative altrui non facciamo caso, non vogliamo che siano queste a guidare il nostro lavoro. 

Tratto nasce per esprimere ancora meglio e ancora di più come intendiamo noi la ristorazione, uno stare a tavola in cui la convivialità è il centro dell’esperienza. Tratto è l’autenticità e l’irriverenza di Trattoria contemporanea in un format di casual dining. Lo stesso coraggio, il medesimo istinto e l’immutata passione con un focus importante sulla condivisione.

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