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Sannio: mini tour nell’entroterra campano a caccia di prelibatezze

sannio

Tra vigneti e prodotti tipici, ci siamo letteralmente persi nel Sannio, il tratto di Campania compreso tra le valli Caudina e Telesina. E vi raccontiamo quello che abbiamo assaggiato, fra tradizione e modernità.

Ancora poco conosciuto (e valorizzato) il Sannio. Parliamo di un tratto di quella Campania meno nota, lontana dai lustrini costieri, vicinissima ad usi e costumi fortemente caratterizzanti. Qui il senso di identità è fortissimo, lo tocchi con mano. Siamo in provincia di Benevento. Nell’antica terra dei Sanniti, quelle tribù che un tempo si sparpagliavano per le montagne, organizzate in tante piccole comunità indipendenti. Una forma di individualismo rimasto incastrato nel DNA del territorio, almeno quanto le sue ricchezze.

Ci siamo inoltrati in un mini tour, nell’area incastonata tra le valli Caudina e Telesina. Circondati da vigne e uliveti centenari, attraversando borghi in cui tutto sembra immobile, abbiamo scovato antiche prelibatezze, oggi riscoperte e valorizzate dallo sforzo di pochi eroi. Un Sannio (anche) da gustare, fra tradizione e modernità.

Per l’agevolazione dei vari incontri in azienda, ringraziamo di cuore Giuseppe D’Amico, sommelier e sannita doc. “La nostra è una terra di mezzo, per dirla alla Tolkien, ben incastrata fra Tirreno e Adriatico“.

Azienda Agricola Fontana Stella

Arriviamo da Franca Norelli di buon mattino, siamo a Melizzano, alle pendici del Parco Naturale Regionale Taburno-Camposauro. Nella campagna di Fontana Stella è l’ora giusta per una prima colazione genuina.

Franca è la giovane proprietaria di un’azienda agricola che dal 2014 accompagna tutte le fasi di produzione e lavorazione del grano. A partire dalla semina: grani antichi, autoctoni, macinazioni a pietra, lunghe lievitazioni. Pane, pasta, taralli tipici, c’è anche il “vascuotto”, il pane duro campano, la fresella ante litteram.

Per la nostra colazione, ci vengono offerti i biscotti preparati con le farine di casa. Quindi farro, segale (in dialetto, jermano), risciola, saragolla. Tutti diversi, tutti a schiudere quel famoso sapore di una volta. Un gusto pieno, antico, masticabile, mai standardizzabile. Franca Norelli ci tiene a precisare di non essere figlia d’arte: “ho iniziato da zero, tra lo scetticismo generale, semplicemente coltivando un sogno, dal seme alla tavola. Ho avviato il mio mulino a pietra e sono partita da lì. La passione per quello che faccio è l’unica mia risorsa.”.

Chi semina, raccoglie, è proprio il caso di dirlo. Franca Norelli ci ammalia di semplicità e coraggio. E se il buongiorno si vede dal mattino, la nostra giornata promette benissimo.

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Birrificio del Sannio

birrificio del sannio

Ancora la bella gioventù del Sannio. In una veste moderna e sperimentale. Birra 100% italiana e 100% artigianale, progetto di un coinvolgente Sergio Amore. Siamo a Frasso Telesino, in un ex oleificio appartenuto al nonno di Sergio. Locali da tempo vuoti e abbandonati e che, dal 2016, sono tornati a vivere, a profumare di buono.

Con la collaborazione del mastro birraio Antonio De Feo, l’acqua di sorgente che sgorga dal monte Taburno e materie prime sceltissime, parte un’avventura che oggi conta cinque tipologie di birra, cinque ricette in divenire. Sergio Amore non è di quelli che si accontentano facilmente. Esperimenti su esperimenti per tirare fuori profumi e sapori sempre più intensi.

Per dovere di cronaca, le abbiamo assaggiate tutte. La Samnia (premiata da Slow Food in Birre d’Italia 2019), la blanche di casa. Sorso fresco, di medio corpo, schiuma pannosa che ci spiegano essere frutto dell’impiego del grano sannita Senatore Cappelli. Proseguiamo con la Malies, la loro Pale Ale dorata, con intriganti note citriche. La Niclus, una Indian Pale Ale di medio corpo, agrumata, con un amaro ben bilanciato. Poi la Nurca (anche lei premiata da Slow Food nel 2021). Una saison che omaggia la Mela Annurca igp campana. Speziata, naturalmente fruttata, con malti di segale e risciola ad arricchirne la complessità del gusto. Infine la Gladius, tipologia Belgian Dubbel, ambrata, tenore alcolico che arriva ad un 8% di tutto rispetto. Profuma di uva passa e mandorle.

Ascoltiamo il racconto delle fasi di produzioni, due mesi di lavoro certosino per arrivare alla bottiglia che noi semplicemente stappiamo. Registriamo anche il dolore per tutto quello che è andato perso a causa della pandemia, “la birra non è come il vino, lei non può aspettare”. La speranza di ripartire e di non fermarsi più. Un progetto che merita tutto il nostro incoraggiamento, anche solo per l’audacia e la cura che, qui, si respirano insieme a malti e luppoli.

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Azienda Vitivinicola Torre a Oriente

Siamo a casa di Patrizia Iannella e Giorgio Cernaccolo, nel comune di Torrecuso, nell’area del Taburno. Caratteri e sguardi di acciaio, uniti nella vita e nel lavoro. Patrizia inizia nel 2005 con la prima vinificazione, mentre nel 2013 avviene il sodalizio con l’azienda agricola di Giorgio. Oggi parliamo di una proprietà con circa 23 ettari di suolo. Viticoltura, olivicoltura, oltre a produzione di cereali e legumi. Due i vitigni autoctoni sui quali l’azienda accende i riflettori: falanghina ed aglianico, per le rispettive Falanghina del Sannio doc ed Aglianico del Taburno docg.

In azienda, per la degustazione ci concentriamo sui bianchi. Ci propongono una verticale di Falanghina, per testarne i benefici del tempo. Gli approfondimenti dei profumi, gli ampliamenti dei sapori. Le etichette, così come i nomi scelti per i vini, sono originalissimi, tutti dedicati alla famiglia. Stappiamo insieme Siriana 2019 ed è un’invasione di fiori, mentre la 2017 già schiude una bella nota fumé. Passiamo all’altro bianco di casa, Biancuzita, sempre Falanghina del Sannio dop, la 2016 consegna morbidi sentori di frutta e miele. Stupefacente come il vitigno riesca, nel tempo, a perdere sfrontatezza e ad acquisire eleganza.

Arriviamo ad una 2015 e persino alla 2008, mentre la padrona di casa sfodera un’accoglienza che profuma di pasta di grani antichi condita con del “semplice” pomodoro. Il tutto, con la firma di Masseria Roberti, altra bella realtà di zona che, qui da Torre a Oriente, riempie un intero scaffale di specialità gastronomiche. Andiamo via con il sapore della Falanghina ancora in bocca e, nell’anima, la certezza che il Sannio in poco tempo ti ruba il cuore. Senza effetti speciali. Il Sannio semplicemente è.

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Prosciutteria di Pietraroja

Nel silenzio più totale di un borgo suggestivo, si arriva a casa del “dottore”: lui è Emilio Di Biase e fa il medico davvero. Ci accoglie nella sua Pietraroja, ai piedi del Monte Matese. Ottocento metri di altitudine e un clima anche rigido, “la tradizione del prosciutto qui non è casuale, non si può pensare di stagionare ovunque, il prosciutto ha bisogno di climi rigidi e, comunque, mai oltre i 20 gradi”.

Pietraroja oggi significa recupero di usi antichi, con un’attenzione scientifica nel ricreare, con mezzi moderni, quello che una volta accadeva per consuetudine nelle case dei contadini sanniti. Attraversiamo la prosciutteria-museo, scopriamo il caveau che ospita i prosciutti per dodici, diciotto, ventiquattro, trentasei mesi. Sgraniamo gli occhi ad ogni parola proferita dal “dottore”. Incontrare un produttore così meticoloso, inevitabilmente, fa riflettere sul resto del cibo, quello che arriva dalle produzioni di massa. Ci ricorda che il prezzo basso non è mai un affare.

Emilio Di Biase ci mostra con fierezza i suoi prosciutti “brutti”, coperti di muffa, e scopriamo con lui che è giusto così. Diversamente, ci sono i prosciutti spalmati di strutto, quindi lucidi e accattivanti, ma anche impossibilitati a perdere acqua e quindi a subire un fisiologico calo di peso. È la dura legge di un mercato che guarda solo il profitto. Il “dottore”, invece, questo calo di peso lo mette in conto, sa che fa parte di un processo che punta solo sulla qualità. Un metodo che “deve essere scientifico”, il giusto sale, la giusta temperatura, la giusta attesa.

Il risultato è un equilibrio di parte grassa e magra, un incontro di sapidità e dolcezza, un qualcosa che ti sembrerà di assaggiare per la prima volta.

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Locanda Radici

Cenare da Locanda Radici, dopo una giornata di giri e assaggi, per noi significa chiudere un cerchio a tutto Sannio. Quello che abbiamo incontrato in questa porzione di territorio campano, qui trova dimora, la sua declinazione più naturale.

La cucina di territorio di Angelo D’Amico, l’accoglienza di suo fratello Giuseppe D’Amico, maitre sommelier. Entrambi sanniti doc, questa terra la respirano per poi restituirla con occhi e parole piene di saggezza. Con la calma e la lentezza dei gesti che valgono un marchio di fabbrica. Con la velocità nel darsi da fare per una terra che è ancora tutta da scoprire.

Da Locanda Radici si mangia à la carte oppure scegliendo tra quattro menu degustazione (compreso uno vegetariano). Materie prime locali, scelte con cura maniacale per restituire, insieme al gusto, un racconto del territorio. Attraverso gli ortaggi, le farine che qui diventano pani e paste strepitose, le carni, senza dimenticare i vini. Eccellente anche la pasticceria.

I fratelli D’Amico ti accolgono a casa e l’ospite diventa il centro di tutto. Assaggiamo piatti apparentemente semplici e che si rivelano esplosioni di gusto. Indimenticabili i cappellacci allo “Scarpariello 2.0 con pomodorini alla brace”. Masticandoli (benedetta masticazione di una volta) realizziamo che stiamo sintetizzando un’intera giornata. Cogliamo il significato del nome scelto per il ristorante e, quasi quasi, gliele invidiamo un po’ queste radici così profonde che, oggi, hanno voglia di farsi conoscere dal mondo intero.

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