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“Ecco perché spero che i ristoranti riaprano prima di giugno, prima possibile.”

È l’auspicio di Marcello Cambi, decano dei giornalisti ANSA, espresso sulla sua pagina Facebook in un breve ma emozionante racconto, che abbiamo pensato di riprendere e pubblicare

C’è stato un periodo della mia vita in cui, come se facessi contrabbando, viaggiavo tra Firenze e Roma con una borsa frigorifero. Dentro, ogni volta, quasi tutti i lunedì: due-tre chili di lampredotto, un tipo di trippa introvabile nella Capitale. Destinatario, il ristorante “Da Mario” di Via della Vite, qualche metro da Piazza di Spagna, la mia famiglia romana.

Ci si può credere o no: il giorno dopo un bel gruppo di clienti, chiesta conferma, arrivava appositamente per il lampredotto. Non ha un grande sapore e, anzi, a vederlo, fa un certo effetto, ma con il sugo preparato da “Mario”, detto il toscanino, si diceva, era buono anche il cartone.

Nei miei anni da pendolare ho conosciuto proprietari di ristoranti di cui non avete nemmeno un’idea, trattorie gestite da artisti, da geniali famiglie, con il loro modo sottile di diffondere amicizia, una simpatia straripante, un tipo di amore che possiedono solo loro, particolarissimo. Un affetto che ho assorbito e restituito.

Ho anche visto nascere alcuni di questi locali. Mi viene a mente “Il Latini” a Firenze. Io, come un milione di altre persone, ero amico di Narciso, il proprietario. Quando sono stato trasferito a Milano, per un mese mi ha telefonato tutte le sere, alla fine del suo lavoro: “Torna subito a Firenze”. Dopo l’alluvione, novembre 1966, l’Arno arrivato al soffitto, ha chiamato gli amici dalla campagna, ha ripulito e imbiancato le stanze e due giorni dopo ha messo a tavola tutti. “Tutti” sta per gli artigiani che lavoravano in Via dei Palchetti, Via della Vigna Nuova, Borgo Ognissanti e zone tutte attorno. La mattina consumata a togliere il fango dai negozi e, a mezzogiorno, un piatto caldo e parecchie pacche sulle spalle.

Marcello Cambi, Andrea e Mario Mariani, ristorante Da Mario

Sul ristorante di Via della Vite a Roma, tempio della cucina toscana con il suo stracotto e la sua ribollita, si possono scrivere libri e diari della nostra vita. Un libro, anzi, l’abbiamo scritto, dedicato alla maestria di Mario, della moglie Maria, del figlio Andrea, e a uno dei loro prodotti più famosi: il fagiolo zolfino, piccolo, biondo, senza buccia, soffice, profumato. Ma ogni piatto qui aveva una storia.

Tutti i personaggi di quegli anni, di più di un’epoca, sono stati ospiti di Mario. Una sera Aldo Fabrizi, dopo la rappresentazione del “Rugantino” al Sistina, arriva all’una di notte con tutta la compagnia, 42 persone. L’attore entra in cucina e con Mario prepara la cena per tutti. “Questa è cultura” diceva il filosofo Tullio Gregory. Ma un famoso chirurgo, un giorno, era di maggio, quasi muore per aver mangiato quattro minestroni freddi, senza riuscire a fermarsi. Minestroni di riso, per l’esattezza. Quando non c’era il presidente Azeglio Ciampi, c’era Francesco Cossiga che una volta invitò proprio qui il cancelliere Helmut Kohl con il seguito dei giornalisti in una sala tutta per loro.

È in Via della Vite che, a sera, alla chiusura, entra in scena lo scopone scientifico più divertente che si conosca. Perché c’è chi punta tutto sullo spariglio e chi dopo anni si chiede: “ma, esattamente, che cos’è lo spariglio?” .

Ecco perché io spero che i ristoranti riaprano prima di giugno, prima possibile.

Mi aspetta “Vito” in Via degli Scipioni, a Roma. È già all’opera. Sa che preparare il nostro tavolo, quello dei quattro amici giornalisti, è come allestire il palco reale della Scala. Vito fa parte dello spettacolo, come tutti i ristoratori che ho conosciuto e ammirato.

Di ognuno ricordo la stretta di mano e almeno una risata che abbiamo condiviso. Più di una.

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