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Birra artigianale, che passione! Parola di Andrea Camaschella

Appassionato, docente esperto e grande conoscitore di birra. Lui è Andrea Camaschella, autore, insieme a Davide Bertinotti, dell’Atlante dei Birrifici Italiani. Noi lo abbiamo intervistato e questo è quello che ci ha raccontato

La birra non è solo la scusa per trascorrere del tempo insieme ma è la più antica bevanda alcolica. La prima testimonianza scritta proviene da una tavoletta di argilla sumera, databile intorno al 3700 a.C. Il reperto è conservato presso il British Museum di Londra. Andrea Camaschella è uno dei maggiori esperti in Italia, autore, assieme a Davide Bertinotti, dell’Atlante dei birrifici italiani, edito da Libreria Geografica, che racchiude la descrizione di 244 birrifici e ben 612 birre.

Noi lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare la sua storia, la nascita dell’Atlante e lo stato attuale del movimento brassicolo italiano.

Il colpo di fulmine con la birra quando è scoccato?

In realtà sono stati tanti piccoli episodi, il più significativo in un pub nei sobborghi di Londra dove scoprii le Real Ales. O meglio dove bevvi la mia prima birra tradizionale inglese, molto più tardi ho capito cos’era quella birra sgasata e tiepida eppure così buona.

Di cosa ti occupi?

Mi occupo di birre artigianali: ne scrivo, ne parlo, partecipo a giurie in concorsi, insegno degustazione, a volte collaboro con birrifici sul controllo qualità. Insomma, ho fatto di una passione una professione.

Come si degusta e si serve correttamente una birra?

Ogni birra, come un buon vino o un buon distillato, ha il suo bicchiere e il suo modo migliore per essere servita, con maggiore o minore frizzantezza. Non esiste un modo univoco: il mestiere del publican (il gestore di un pub) è un’arte. Per quanto riguarda la degustazione, dipende dal momento e dalla necessità. La cosa più importante è cogliere il messaggio che il birraio ha voluto mandarci attraverso quel bicchiere: ogni birra ha una storia da raccontare.

Quali sono gli errori da evitare nella degustazione?

Voler degustare, stilando un giudizio, in un luogo affollato, rumoroso, con odori che arrivano dalla cucina per esempio è un errore. Così come bere in un locale dove la cura dell’impianto non è ottimale e i bicchieri non sono lavati alla perfezione e poi lamentarsi del birrificio.

Quanti sono gli stili birrai?

Oltre un centinaio, il numero è in continua evoluzione, basti pensare che dal 2015 anche l’Italia ha un suo stile, le Italian Grape Ale, e che molti stili, nei secoli, sono scomparsi, alcuni lasciando qualche traccia altri, molto probabilmente, no.

Il movimento brassicolo italiano è in fermento. Quanti sono attualmente i birrai e come spieghi l’accresciuto interesse per il settore?

Dirti quanti sono i birrai mi è impossibile, ma ci sono poco meno di 1.000 birrifici, con impianto proprio, in attività. Un numero impressionante se pensiamo che tutto è nato poco più di vent’anni fa e che in Italia i consumi di birra sono tra i più bassi d’Europa.

A un semplice appassionato interessato ad approfondire l’argomento, quale percorso suggerisci?

Ci sono tanti corsi interessanti, con percorsi di avvicinamento, come Fermento Birra, MoBI e Union Birrai. In alternativa trovarsi un buon pub e lasciarsi guidare dal publican può essere un buon inizio. In ogni caso viaggiare aiuta.

Assieme a Davide Bertinotti sei autore dell’Atlante dei birrifici italiani. Qual’è l’obiettivo del testo e come è suddiviso?

L’obiettivo, deciso con Davide ma anche con Libreria Geografica, l’editore, è quello di proporre la nostra (e sottolineo “nostra”) scelta dei migliori birrifici italiani, che abbiano una storia da raccontare, birre interessanti e costanza in produzione e raggrupparli in aree e percorsi, legandoli alle mappe geografiche.

Le ultime scoperte interessanti?

All’ultimo Beer Attraction di Rimini mi ha colpito la Miss Granny di Croce di Malto, una “old style” American Pale Ale, con luppoli classici statunitensi, senza voli pindarici e piacevolissima da bere. E il progetto di Hammer che ha prodotto in collaborazione con Gone West una birra i cui introiti aiuteranno il Pianeta: 2.000 litri di birra finanzieranno la piantumazione di 100 alberi. Di questi tempi una cosa molto giusta, che spero coinvolga molte altre aziende.

La birra italiana all’estero piace?

Le birre italiane piacciono all’estero e soprattutto interessa la creatività italiana, la capacità di andare fuori dagli schemi, creando qualcosa di nuovo. Poco ci manca che ci sia più interesse sulle nostre birre all’estero piuttosto che in Italia, ma questo non si traduce in clamorose esportazioni: raggiungere il mercato estero è complicato, dalla nostra burocrazia in primis e da una differenza di prezzo che in Italia non siamo ancora in grado di colmare.

Il turismo della birra nel mondo è un fenomeno in crescita. In Italia cosa succede?

L’Atlante è una proposta anche in questo senso. Non è una guida e non è nemmeno tascabile ma permette di costruirsi un percorso in una data zona.
All’estero i birrifici e pub sono meta di turismo. Sarebbe impensabile andare in Belgio o in Germania, tanto per fare esempi a caso, senza bersi una birra, senza frequentare birrerie: la birra là è una parte integrante della vita di tutti i giorni. Come pensare di venire in Italia e mangiare solo in fast food ignorando la nostra cultura gastronomica. Dall’estero capitano molti turisti appassionati in cerca di birrifici da visitare, ancora pochi perché non sappiamo convogliare le loro necessità e le nostre agenzie turistiche ignorano questa opportunità.

Nell’immaginario comune la birra artigianale è associata all’idea di una buona birra. Quella industriale è stata demonizzata?

Beh non è detto che una birra artigianale sia necessariamente buona ma almeno alle spalle ha una piccola azienda che paga le tasse, crea lavoro, fa girare l’economia locale, ha dietro un birraio, che ci mette la faccia e il proprio gusto personale, le proprie capacità. Una birra industriale, spesso è un semplice marchio di una multinazionale, è equiparabile a un vino industriale: se anche fosse buona non regala emozioni, non ha una storia reale alle spalle, al massimo lo story telling di un ufficio marketing e la materia prima utilizzata è meno importante di quest’ultimo.

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